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ILARIA PALOMBA - POESIE

BEL ESPRIT - ARTIUM SODALITAS

Introduzione a cura di A.M.



Ilaria Palomba, foto di Dino Ignani


Non è compito mio parlare di testi altrui, ed è un crimine appesantire l’arte con spiegazioni, critiche o chissà che altro: sono qui soltanto per mettere in guardia la coscienza del lettore. I testi qui pubblicati sono divisi in due sezioni, in quanto si tratta di due opposte esperienze della poesia.

Nelle profondità più vaghe, impersonali, sembra risiedere il fulcro della persona: questa paradosso è il centro delle poesie inedite di Ilaria Palomba. Per chi creda in tali contraddizioni, leggere può significare soltanto annegare, ripetere la stessa operazione di disgregazione dell’autrice, e non mai decifrare i segni fonetici del testo. Queste ultime poesie siano uno spartito, dettino il ritmo del vostro squartamento sciamanico: non comprendete, non chiedete. Il pensiero è sacrificato per la voce, e nella voce ci si deve perdere: solo allora avranno un senso. Il loro processo è automatico: lo sia la lettura, sia essa abbandono. I testi siano una guida nel sacrificio dell’io, del pensiero, il sacrificio in nome di una voce più profonda, dove risiede il vero spessore dell’articolazione di quella voce. Il compito di queste poesie, frammentarie nella forma, è quello di sottrarre, di togliere. Se nei Microcosmi, nella prima sezione, l’onirico già parla, emergendo come un grido, tendendo a un posto nella comprensione perché motivato dalla volontà personale; nelle poesie inedite, l’onirico appare solo come conseguenza della sottrazione: il sogno è la meta, non il punto di partenza: se i Microcosmi sono rappresentazione del sogno, le poesie inedite hanno il compito di far sprofondare, nel sogno. La rappresentazione è letteratura, volontà personale; la sottrazione è gesto linguistico vivo, perché è tolta la luce che le stelle brillano, e solo con le costellazioni il marinaio si orienta nell’abisso, verso un porto: per chi viaggia, solo nella notte vi è speranza di vita, solo nella notte è possibile una figurazione dello spazio circostante e dunque del proprio moto, delle proprie possibilità. La lettura della seconda sezione è possibile solo nella sincronia con la scrittura, con l’annullamento della scissione fra autore e lettore, dello scarto temporale fra la creazione e la ricezione: la vera lettura non può che essere fratellanza nella dissoluzione, tramonto. L’alba non è tuttavia promessa; e in questo vuoto aperto, questo profondo dove regna la caduta più che il fondo, solo ritrovare la voce al di là dei segni potrà volgere il negativo nell’essere.


A.M.










Due poesie tratte da Microcosmi (Ensemble, 2022)


Io sono abitata da diecimila

demoni di diecimila mondi

di diecimila parti di me e di

te. Rebis. Vecchia come la

terra, giovane come l’aria,

nata ora dal tuono, la mente

perfetta. Demone, reticolo di

di vite - mie tue - incrociano,

scindono il fuoco. Rito,

nella mente estroflessa

della mia feconda infecondità,

intrappolata nell’ossessione

di aver lasciato una parte

a ogni uomo, di aver ceduto

la morte di ogni parte all’uomo

che è donna. Primordiale caos

senza uscita, trappola mortale,

dieci anni nello specchio. Ti

ho odiato, non hai saputo

proteggermi. Avrei potuto

distruggerti, se lei avesse

voluto oltrepassarmi. Dimmi

ora chi è quella donna che

mi guarda nello specchio,

che non mi somiglia ma ti

somiglia, che non m’inganna

ma t’inganna, illusa di uscirne.

Rifiuta l’amore per ancorarsi a

un pensiero che non vuole finire.

Rivendico tutto sotto il mio dominio.

Riprendo le parti smarrite.

La stanza è una foresta, tu ridi di

tutto, io di nulla. Alterati, smascherati.

Siamo noi, ora, oltre la terra, nel rito

del tuono. Torniamo all’aurora,

nel cielo marmoreo, torniamo

nel ventre. Schiudiamo diecimila

demoni, li attraversiamo

nella carne. Nessuna prigione.

Trascorre l’ombra, i demoni

si sfaldano in angeli.


*

Cosa sei in me?

Parabola che non so decifrare,

melopea spettrale. Nel buio

della stanza ho lasciato i libri

accatastati, segni sradicati dal

suolo: origine, presenza di

cui manco. Minervino innevata

cresceva nell’assenza,

mi riconoscevo antica, nel

pozzo di Canosa ritrovavo

l’acqua densa di memoria,

la donna della quinta prigione

cammina esangue fino alla fonte,

scompare, pietrificata dall’acqua.

Li chiamano fantasmi ma

sono ancora vivi. Le case

vuote, scarne. Afrore di carne.

L’assente. Ripieghiamo cento lenzuola,

mia madre appare la notte

nelle crepe del muro. Anche lei è stata

un tempo limpida, mansueta e dopo

ha preso fuoco, la gonna a fiori: un rogo.

E nel suo corpo il mio annega

allagato al ventre:

la grande assassina.




Poesie inedite


Andammo alla foce di ogni fiume

a ritrovare smarrimenti.

Nessuna linea tra il prima e l’ora,

nessun ardimento.

Il serto, tutta l’acqua in gola,

l’inizio di un corpo.

Trascinammo piccoli rami

nella terra, nel bosco.

Tornammo alla fonte senza

voce. Non tornammo.


*


Devi recidere ogni ramo,

non lasciare scoperto

neanche un lembo.

Resta nella ferita,

lascia all’Angelo l’arbitrio.

Saremo stelle nella notte,

creature d’acqua.

Lascia sia lui

oltre i regni,

nella tenebra accecante.


*


Cosa se non il margine?

Nessuna presenza.

Voce gracile dall’altra parete.

Non son degna del mondo,

ma prendo l’amore sognato,

ne faccio una culla

e non chiedo

di svegliarmi.

La veglia è guardare

in fondo al corpo,

riconoscersi insaturi,

rivelarsi orrori.

Preferisco nascondermi

e non lasciar essere

l’assenza, mia gemella.


*


Non indugiare, amore, non

lasciarmi nella morte, questa

sgraziata parola. A me resta

il frammento, la parola

murata nel riverbero.

La parola e

nessuna forma, solo

un grondare senza

tempo. L’idea di

morire, morire ancora,

o assecondare il monito,

dirsi miliardi di volte: guarda

ora la luna ha il colore del fuoco.


*


Non dire non esisto e non bruciare

nei vicoli vicini vibranti vado viva

e non potrò urlare quanto sia stanca

traccia del sole le dita raccolgono

non lasciarmi non andare ora non

donarti alla nuda luce del mare

non sapere della terra non tremare

nelle sue lacrime non cedere al

rumore di una città sepolcrale e

sappi poi insegnarmi a non morire.



 

Ilaria Palomba è una scrittrice, poetessa e saggista. Ha pubblicato i romanzi: Fatti male (Gaffi; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero; Premio Carver 2015), Una volta l’estate (Meridiano Zero), Disturbi di luminosità (Gaffi; da cui lo spettacolo teatrale Disturbi, con regia di Olivia Balzar, andato in scena all'Ivelise di Roma nel novembre 2019), Brama (Perrone), Terrafelice (https://romanzionlinefree.blogspot.com/2021/11/terrafelice.html?m=1, tradotto in bosniaco), Vuoto (Les Flaneurs); le sillogi: Mancanza, Deserto (Premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble), Microcosmi (Ensemble, premio Semeria casinò di Sanremo 2021; Premio Speciale Virginia Woolf del Premio Nabokov); il saggio: Io Sono un'opera d'arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud). Ha scritto per La Gazzetta del Mezzogiorno, Minima et Moralia, Pangea, Succedeoggi. Ha fondato il blog letterario Suite italiana, collabora con La Fionda, Inverso e Le città delle donne.




 

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