Di Francesco Zevio
*note a piè pagina
PREAMBOLO
Con questo articolo volevo delineare alcuni concetti impiegati da Agamben in un suo recente intervento: concetti malintesi da qualche giornalista e che, così fraintesi, hanno portato a un generale fraintendimento di quello che mi pare essere il fine degli interventi del filosofo. Volevo mostrare come e perché tali concetti siano stati compresi erroneamente, rilevarne tanto alcune sottigliezze che li rendono passibili di malinteso per un non addetto ai lavori, così come alcune premesse date per scontate dal filosofo ma che invece scontate non sono, se ci si vuole rivolgere a una platea di non specialisti. Volevo scrivere di tutto questo ma… ma non ce la faccio. Una sorta di impotenza, col gravame di un terribile e opprimente senso di frustrazione, mi impedisce anche solo di cominciare. Non è la prima volta che mi accade (questa coppia di sentimenti mi è anzi piuttosto familiare) ma in questo clima, lo abbiamo notato un poʼ tutti, le cose hanno tendenza a farsi ancora più pesanti. Inoltre, se non riesco a cominciare, è anche perché Agamben non necessita certo di un mio intervento. Quello che scrive, come lo scrive, a chi lo scrive è lui a deciderlo.
Sono un lettore di Gramsci. Gramsci non è lʼautore citato da Fusaro tra lo Hegel et Aristotile, ma è prima di tutto un uomo che può ancora parlarci attraverso una serie di testi in cui egli ha registrato i propri pensieri.
Uno dei punti cardine nella riflessione di questʼuomo consiste nella relazione tra alto e basso nel campo della cultura: quindi nellʼazione di quella classe intermedia di intellettuali cui spetterebbe appunto il ruolo di intermediari tra apice e base intellettuale, come pure un ruolo di rilievo nel compimento di quella riforma del corpo sociale che, in un passaggio che apre le Noterelle su Machiavelli, Gramsci definiva come “intellettuale e morale.” [1] Questi due termini ritornano anche altrove, in un altro passaggio gramsciano espunto dalla Introduzione alla filosofia:
Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte originali, significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, socializzarle per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale. [2]
Se non riesco a scrivere questo articolo, se mi sento impossessare da questo senso dʼimpotenza e frustrazione, è anche perché sento di avere fallito in questa opera di creazione di una “nuova cultura”. Impotenza e frustrazione... ma non credo proprio di essere lʼunico ad avere sviluppato una certa familiarità con la nostra affezionata coppia di sentimenti. È una intera categoria ad avere fallito, ed è dunque una intera categoria che deve domandarsi: perché abbiamo fallito?
Perché abbiamo fallito? In questa nostra tuttora indocile età dell’informazione dobbiamo ammettere che, proprio come è avvenuto e avviene per la redistribuzione della ricchezza, così anche per la redistribuzione della cultura la “classe media” sia stata e stia venendo progressivamente spazzata via. Quella che pare delinearsi con sempre maggiore chiarezza è una società senza alcun legame, senza alcuna relazione e intermediazione possibile tra alto e basso: una società dove lʼapice, detenente del 99% della cultura, è divenuto ormai incapace di farsi comprendere dalla base; e dove la base a sua volta è sempre meno disposta a prestare ascolto all'apice in un circolo vizioso e situazione da psicodramma che, nel migliore dei casi, fa tornare in mente alcuni versi delle Ricordanze:
[...] intra una gente zotica, vil; cui nomi strani, e spesso argomento di riso e di trastullo, son dottrina e saper; che mʼodia e fugge per invidia non già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché estima chʼio mi tenga in cor mio [...]
In tutto questo ognuno ha la sua parte di responsabilità. Io vorrei però concentrarmi sulle responsabilità che mi pertengono, quindi sulle responsabilità di quanti siano a vario titolo impegnati nella intermediazione culturale e, in particolare, di quanti dovrebbero setacciare la cultura per isolarne gli elementi essenziali a sviluppare una lettura quanto più critica della realtà – così da proporli a chi non abbia né il tempo, né la preparazione necessaria per passare egli stesso a setaccio lʼimmenso fiume della cultura.
Mi voglio servire di una immagine.
Se possiamo immaginarci la realtà come una sorta di grande e complicato macchinario che dobbiamo essere capaci di smontare e rimontare, se vogliamo autenticamente cominciare a comprenderlo, allora dobbiamo immaginare la cultura come una cassetta degli attrezzi e i concetti come una serie strumenti, con relative conoscenze al loro corretto impiego [3]. Inutile dire che, più strumenti si hanno, meglio è. Il compito di chi siede allʼapice, infatti, è quello di analizzare e studiare il macchinario con la più attenta minuzia e accuratezza – rifornendosi di più strumenti possibile ed eventualmente forgiandone egli stesso di nuovi, sapendo perfettamente come servirsene così da smontare e rimontare tutto lo smontabile con la maggior precisione ed efficacia possibile. Questo per lʼapice. Il problema è che non tutti hanno queste stesse capacità e possibilità di rifornire la cassetta degli attrezzi, perché non tutti fanno il suo mestiere. E qui entrano in gioco gli intellettuali che si pongono tra apice e base. Se uno di essi nota che, nel macchinario, ci sono 20 viti a taglio ogni 2 bulloni, e che prima di poter smontare i bulloni è il caso di svitare le viti, riconoscerà che è più urgente munirsi di un cacciavite che non di una chiave o di una brugola, quindi suggerirà a chi abbia una cassetta ancora non molto capiente di cominciare col procurarsi un cacciavite a taglio [4]. Un autentico intellettuale deve mostrare tre capacità, ovvero i) la capacità di osservare e studiare il macchinario il più attentamente possibile, quindi ii) la capacità di scegliere gli strumenti più utili e necessari, quelli più essenziali e infine iii) la capacità di socializzarli: quindi di diffonderne criticamente la conoscenza.
Il problema è che spesso gli intellettuali non sono disposti a crearsi la loro propria cassetta degli attrezzi tramite lʼattenta osservazione del macchinario e lo studio disciplinato del maggior numero di strumenti escogitati da chi li ha preceduti, ma tendono a comprare cassette già preconfezionate. Queste cassette pret-à-penser, sono le ideologie. Ancora una volta: se vediamo che è consigliabile saper allentare viti prima di svitare bulloni e che 8 viti su 10 sono a taglio, è il caso di premunirsi di un cacciavite a taglio.
Quello che spesso avviene tramite le ideologie, invece, è che alla gente venga rifilato o un mallet con tappi di plastica e portachiavi a forma di pesce arcobaleno, o un turbocacciavite 8x200mm a trazione atlantica PZ 0-1-2 sradicato e sradicante con impronta PODRIZ... a croce.
Nei prossimi articoli tenterò di presentare e proporre alcuni degli attrezzi che sono a mio avviso più utili per smontare e rimontare il macchinario, avvalendomi di alcuni esempi dai fatti di attualità. Il primo articolo verterà su un certo bias cognitivo chiamato pregiudizio di conferma.
Prima di concludere questo preambolo, voglio riportare altre parole di Gramsci:
Lʼarte di operare coi concetti non è alcunché di innato o di dato nella coscienza comune, ma è un lavoro tecnico del pensiero, che ha una lunga storia, né più né meno della ricerca sperimentale delle scienze naturali.[5]
Da quanto esiste, Cultura in Atto non ha mai cercato di nascondere questo fatto.
Una autentica socializzazione del sapere, una autentica diffusione delle “verità già scoperte” deve e non può che avvenire criticamente. La trasmissione critica del sapere richiede uno scambio e uno sforzo attivo da entrambe le parti, sia nel dare che nel ricevere. Infatuare individui con concetti e pensieri che non riescono bene a delineare e dunque nemmeno a comprendere, non è il nostro mestiere.
In questo senso, noi proviamo a fare la nostra nonostante impotenza e frustrazione – sperando che questi nostri sforzi, con quel tanto di valore che forse qualcuno riuscirà a intravvedervi, siano scintilla e incitamento ad altri a sforzi paralleli.
NOTE
1. Quaderno XIII, §1.
2. Quaderno XI, §12.
3. Il problema è più complesso, certo: perché il macchinario non è propriamente qualcosa di pienamente oggettivo e noi stessi siamo parte del macchinario, smontando lui smontiamo noi e smontando noi smontiamo lui e così via – ma queste cominciano già ad essere riflessioni da apice.
4. Altra nota “da apice”. Ebbene sì: ogni intellettuale è responsabile per gli strumenti che sceglie. Se penso che sia più utile andare a rifornirsi di strumenti provenienti dai campi dellʼecologia o della semiologia che non da quello dei gender studies, è una mia scelta e una mia responsabilità. Per quanto riguarda lʼatto educatico, è molto meglio assumere coscientemente la responsabilità di un giudizio di valore, piuttosto che mascherarsi dietro pretese di oggettività scientifica o (brividi!) ideologica.
5. Quaderno XI, §44.
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