È di qualche settimana fa la notizia, proveniente dal laboratorio americano Livermore, della prima reazione di fusione nucleare capace di produrre più energia di quanta ne sia stata immessa per innescarla. Notizia che ha generato, almeno in alcuni ambienti, un certo entusiasmo. Ora io provo sempre un certo irrefrenabile nervoso, di fronte a questo genere d’entusiasmo, e mi sono dunque provato a spiegarlo.
Prima di tutto occorre premettere che, come ricordava Jacques Ellul (filosofo francese annoverato fra i precursori della Decrescita), ad asservirci non è la tecnica, ma il sacro trasferito alla tecnica. E questo che significa? Fra le altre cose – né vi sarebbe qui il tempo di soffermarsi su ognuna – significa la tendenza, rintracciabile nella tecnica, di farsi fine. Farsi fine: ossia non essere più percepita come un mezzo, quindi come qualcosa che debba essere sottoposto alla domanda etica circa la sua destinazione, il suo uso, appunto il suo fine. Quando assistiamo a un entusiasmo incondizionato suscitato da qualche exploit della tecnica significa questo: che essa è riuscita a farsi fine. Così facendo, essa evita il questionamento circa la sua destinazione: il giudizio non avviene più in scienza e in coscienza, ma perlopiù in scienza e incoscienza.
Altra tendenza della tecnica è quella di far sparire la sua storia nell’atto della sua applicazione. Il pubblico – ovvero i non addetti – ha perlopiù un’idea ingenua di scienza e ricerca sperimentale. Un laboratorio nazionale di ricerca come il Livermore necessita soldi, risorse, apparati burocratici per la loro gestione, poi contatti politici, appigli economici, sintonia ideologica e insomma… la ricerca non esiste né agisce in un compartimento stagno: immacolata, disinteressata e con lo sguardo volto alla sola verità, come i cori angelici degli antichi affreschi al dio cristiano. Definendo la tecnica come “copulazione tra capitalismo e scienza sperimentale,” Ortega y Gasset ricorda che ogni suo prodotto o traguardo ha una storia: che pure lei nella storia ci sguazza e che quindi, sguazzandoci, non può essere in alcun modo concepita senza macchia. In Francia, per esempio, si parla molto di nucleare, e di questi tempi lo si vende come un passo importante verso l’autonomia energetica (energetica: non politica!) come se l’uranio fosse un sottoprodotto della produzione di baguette, come se la Francia avesse parte dell’esercito di stanza in Niger solo per farlo trastullare giocando ai castelli di sabbia. Qualche altra domanda da “storico” della scienza: quanti decenni e milioni hanno portato a questo risultato? quanti altri ne serviranno, secondo gli esperti, per applicare veramente tale tecnologia? anche gli isotopi dell’idrogeno sono sottoprodotti delle baguette, o meglio, dei panini da burger?
Per questo motivo quello che può sembrare un grande passo per l’umanità è prima di tutto, a mio avviso, un grande passo per la civiltà industriale produttrice di valore di mercato, solo in secondo luogo dell’umanità. E questo solo perché ogni civiltà tende naturalmente a elaborare il suo tipo di umanità: una particolare antropologia in linea con le sue logiche e valori, i suoi bisogni. E infatti a cosa servirebbe questa energia? Prima di tutto, a mantenere in piedi e a revitalizzare un modello di civiltà industriale con i suoi standard di produzione e di consumo, fra cui primeggia il consumo energetico pro capite, divenuto ormai misura essenziale del concetto di benessere sfornato da questa stessa civiltà.
Ancora una volta: quanti altri decenni e milioni? e per farne cosa? Nel frattempo, la chimera di questa stella in provetta e gli scenari di una futura e illimitata disponibilità energetica servono a rilanciare propagandisticamente una civiltà (quantomeno sindacabile) e a distrarci dai problemi che ha generato, che genera, che andrà generando.
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